Nel corso del viaggio newyorkese di Manuela Vitulli a dicembre 2021, le avevo confidato di star stringendo fortissimo a me il desiderio di realizzare col mio fidanzato il suo grande sogno di abbracciare New York.
Il sogno, questo benedetto sogno lasciato a riposare e lievitare per troppi anni, ha conservato intatta la sua fragilità sino a pochi istanti prima di partire (fino all’esito negativo del temutissimo tampone pre-decollo compagno di numerose notti insonni), ma è riuscito a concretizzarsi lo scorso aprile 2022, facendomi vivere una Pasqua nella Grande Mela come mai avrei creduto possibile.
Per la mia prima volta a New York, a finire in valigia non sono stati solo capi studiati per essere strategicamente abbinati tra loro, ma anche un guazzabuglio scomposto ed eterogeneo di emozioni che in 8 giorni hanno dato il meglio di sé. Raccontarle in differita resta sempre uno dei miei sport estremi preferiti.
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Rieducarsi all’altrove, due albe e migliaia di chilometri dopo
Oltre le nuvole è un bel posto in cui sostare per avere la sensazione momentanea di essere padroni di un mondo e di un tempo che di fatto (per fortuna) non ci appartengono. Devo essermi sentita onnipotente così proprio sull’aereo che venerdì 15 aprile 2022 mi ha portato da un continente all’altro dopo 9 ore di volo da Roma a New York.
Alle 9:30 partivo da Fiumicino e alle 13:30 – con 6 ore di fuso orario nel mezzo – atterravo dall’altra parte del globo attraversando la seconda alba della giornata. Che cosa gigantesca ritrovarsi a più di 6000 km da casa nell’arco di sole 24 ore, sentir di nuovo fluire il sangue della scoperta, destreggiarsi con una lingua diversa e con un cielo che invita a indossare gli occhiali da sole mentre in Italia si è già pronti per andare a dormire.
Certo, per rieducare gli occhi all’esistenza dell’altrove, nei mesi precedenti alla partenza sono stata a Napoli per poche ore e a Roma per un weekend, ma per rituffarmi nel mondo e reimparare a viaggiare ho scelto di valicare l’oceano e ripartire da una delle città più contraddittorie e a misura di giganti che esistano: New York.
Questa volta niente vie di mezzo per la piccola me da sempre abituata a tenere a bada il sognare in grande e a far finta che, impegnandosi, si possa riuscire a sentire il minimo indispensabile.
Fuga a New York senza fuggire da sé
Il fatto è che stare al mondo e stare nel mondo sono due ottime ragioni per allenare tutto il sentire di cui si è capaci, e a New York (così come a Marrakech anni fa) è esattamente quello che ho fatto.
Quanta vita, quante voci, quante contraddizioni incontrate lungo la via, quanta incredulità di fronte alle cose nuove e inaspettate, e a quelle fantasticate da sempre che sono davvero come l’immaginazione, i film e le canzoni ci hanno raccontato… Dopo due anni di chiusura e immobilismo segnati dalla pandemia, questo fluire di passi e brusii lungo la 5th Avenue e tutte le strade che attendono di essere percorse milioni di altre volte ancora è stato come bere un bicchiere d’acqua fresca che disseta e rigenera dopo aver mangiato un gelato sotto il sole della controra pugliese a luglio.
A Manhattan il tempo sembra sempre scorrere velocissimo. Come se il tempo stesso non fosse mai abbastanza.
A New York le luci dei grattacieli non dormono mai, quasi come se volessero fare costantemente da bussola e faro, e ogni andirivieni diurno e notturno scandisce i secondi di un tempo che a Manhattan sembra sempre scorrere velocissimo.
Come se il tempo stesso non fosse mai abbastanza.
Forse è questo che ha accelerato anche me lasciando che il bagliore della luna ammirata dal 19esimo piano del Moxy NYC Chelsea mi svegliasse ogni notte in preda all’urgenza di vedere di più, camminare di più, baciare di più, meravigliarmi di più, anche incavolarmi di più (ché l’umore è quello che è anche in viaggio, anche sotto un cielo diverso, anche mentre si è nel mezzo di emozioni enormi che sballottano di qua e di là. Perché, ehi, non si scappa da se stessi neppur salendo su un aereo e neppure avendo tra le mani una pagnotta di felicità ancora calda. Ce lo ricordiamo, vero?).
Vale tutto
Perché vale provare tutto, soprattutto quando si decide di risalire in sella al mondo. Vale sentirsi in mille modi diversi (increduli, in colpa, sopraffatti, smaniosi di, in preda all’ansia, grati, imbottiti di gioia, frastornati). Vale benedire e maledire le attese.
Vale fare cose per cui il momento giusto forse non c’è né ci sarà mai. Vale volerlo dire per non limitarsi sempre a regolare il volume del cuore. Vale smettere di tenere a bada gli stati d’animo come fossero animali ubbidienti e disciplinati.
Vale prendersi cura di sé anche prendendosi cura dei sogni di chi si ama.
Vale pure alleggerire il carico – della vita, del mondo, di tutto quello che non dovrebbe andare come sta andando –, magari anche partendo con 10 kg in meno rispetto ai 20 consentiti in totale (praticamente un evento da ricordare). Tanto i restanti 10 li avrei riempiti con tutto quello che sarei riuscita a trovare in giro per i vari vintage shop di New York (spoiler: in realtà di pezzoni da collezione non ne ho trovati affatto e quel che mi è rimasto è un po’ di amaro in bocca per la selezione dei capi poco curata).
Questo bisogno di sentire, sentire di più sempre e comunque, anche a New York non ha mollato la presa, e io ringrazio sempre il mio cuore per la cura che si riserva, tra un’ammaccatura e l’altra, ad ogni latitudine e longitudine nelle quali mi ritrovi a sostare o passeggiare. “Come si fa se poi la vita che cerchiamo non ci basta? Non ci pensare, salta”, canta il mio Cesare Cremonini, e io in assenza di risposte plausibili ho seguito alla lettera il suo consiglio: ho fatto un salto nella Big Apple per vedere che effetto fa maneggiare lo stupore dopo due anni trascorsi ad allenarlo e nutrirlo tra le pareti di casa.